Zappa si autointervista
By Vincent Messina
Su Frank Zappa sono stati scritti fiumi di parole. Spesso si e tentato di risalire al personaggio, di dare un volto alla personalità attraverso le sue composizioni: l'immagine convenzionale dalla persona e ben distante da quella reale. Vediamo perché. A parlarne e Frank Zappa stesso.
L'enorme quantità di album incisi, i numerosi articoli a lui dedicati dalla stampa specializzata e non, sono serviti a formare una immagine convenzionale di F. Zappa non molto aderente a quella reale. Spesso è stato dato risalto alle sue gesta anticonformiste, a discapito del contenuto artistico. Come musicista è sempre stato rispettato. Di lui si può dire che se piace, va ingoiato tutto in una volta. Non ci sono vie di mezzo: un artista così stravagante può anche non piacere per niente. Certo F. Zappa è fra i più bravi a pubblicizzare se stesso, non ha mai mancato di far parlare di sé. Molti critici schizzinosi per natura pensano che Zappa sia «l'unico», il solo e vero Genio. Molti lo ricordano seduto sul water di un celebre poster. Alcuni lo hanno visto esibirsi in Italia e hanno pensato che il nasone californiano non fosse poi così vistoso negli atteggiamenti.
Quello che esce fuori dal lungo monologo di F. Zappa, inedito in Italia fra l'altro (n.d.r.), è l'immagine di un artista «diverso», lontano dai miti montati ad arte, attaccato alla realtà, anche se la realtà di F. Zappa non è delle più convenzionali. Resta però la «sua» realtà, quella di un uomo che forse ha il solo «difetto» di credere nelle cose divertenti. E basta.
PRIMI ANNI
« Non ho mai ascoltato musica fin quando avevo 15 anni perché i miei genitori non l'apprezzavano e noi non avevamo né una radio né un giradischi. Credo che la prima cosa che ascoltai e mi piacque era musica araba. Non so come accadde, la sentii· da qualche parte e ne rimasi affascinato. Poi ascoltai cose come «Sh-boom», «Gee», «I» cantata dai Velvets, «Riot in cell block number nine» e «Annie had a baby». Le ascoltai tutte per caso e catturarono immediatamente la mia attenzione.
Non ho composto canzoni fin quando avevo venti, ventun'anni. Tutte le mie composizioni precedenti erano orchestrali e per musica da camera. Le prime cose che composi erano Doo Wop tipo anni Cinquanta. «Memories of El Monte, e roba del genere. Ho sempre creduto che la musica degli anni Cinquanta sia stata fra le migliori in America e non ho mai smesso di amarla. Potrei sedermi adesso e scrivere centinaia di pezzi con quello stile e goderne ogni singola battuta. Credo che i miei lavori siano influenzati sia dal country blues che dal genere in auge nei Cinquanta. Muddy Waters, Lightning Slim. Howling Wolf attiravano particolarmente la mia attenzione.
In quell'epoca vivevo in una parte della città chiamata Echo Park (Los Angeles) tra un miscuglio di razze: negri. filippini, messicani, giapponesi. Il mio appartamento aveva due stanze, un posto pieno di vermi sul lato di una collina. Fu in quella casa che composi «Brain police», «Hungry treaks> ed un'altra decina di pezzi. Almeno il cinquanta per cento delle canzoni si riferivano agli eventi del 1965. A Los Angeles in quel tempo, o perlomeno nella comunità di ragazzini che io frequentavo, tutti cominciavano a prendere LSD e potevi incontrare tantissima gente che vedeva Dio a colori. Ce n'erano tantissimi che si rovinavano così e nel frattempo cresceva quella tensione razziale che esplose a Watts.
Ero stato a S. Francisco un paio di volte, ma non ero né interessato né influenzato dalla scena diversa di quella città. Fondamentalmente credevo che quello che stava accadendo a S. Francisco in quell'epoca ... Beh, ecco cosa vidi quando ci andai. Mentre a Los Angeles c'era gente strana che si faceva vestiti da sola, che metteva indosso tutto quello che poteva venire in mente, lasciandosi crescere i capelli e, che so io, comportandosi più bizzarramente che mai (ognuno seguiva le proprie indicazioni personali), a S. Francisco trovai che tutti vestivano secondo lo stile del 1980, esisteva un codice anche in questo. Sembrava un'estensione di esperienze liceali, dove uno e solo un tipo di scarpe andava bene, era «in», e cose di questo genere. Lo spirito era lo stesso del sud della California, ma S. Francisco non era così evoluta, così varia come L.A. A S. Francisco tendono sempre ad una impostazione «più rustica» della vita.
Quando arrivai a New York non trovai granché d'interessante al Village. La gente che venne a vederci (con le Mother of Inventions, nota D.T.) al Garrick aveva prevalentemente capelli corti. Provenivano dagli ambienti della middle class ebrea, perlo più suburbana. Trovavano qualcosa di bizzarro in noi, qualcosa di divertente.
La ragione per cui erano «shocked era costituita dalla novità che rappresentavamo. Adesso, dopo che molti gruppi hanno imitato i vari aspetti del nostro vecchio spettacolo, come A. Cooper, ad es., è facile individuare l'origine. Quello che hanno fatto negli anni seguenti è stata una versione «cosmeticizzata» delle nostre esperienze del 1967. A. Cooper ha ripreso l'idea dello spettacolo senza realizzare alcunché di qualitativo musicalmente. È facile mettere su uno spettacolo attraente una volta semplificata la struttura musicale e non dovendo badare ad altro che agli effetti di luce e agli scherzi».
I TESTI
«Io credo che i miei testi, nel periodo che intercorre fra la prima stesura, la realizzazione in studio, le prove, i cambiamenti, ecc. giungano infine a significare quello che ... significano. Ci sono molte cose che vorrei dire alla gente in canzoni; ma, dato che sono una persona piuttosto razionale, mi siedo e penso: vuole veramente la gente sapere? vale la pena di scrivere questo, prepararlo con cura, realizzarlo suonando notte dopo notte, inciderlo? solo per esprimere il mio punto di vista? Quando poi so che non è compito mio informare qualcun altro di una cosa che mi appartiene?
Fondamentalmente, nelle canzoni, la gente vuole sentir dire: ti amo, tu ami me, sto bene, ti senti bene, le foglie sono diventate marroni, sono cadute dagli alberi, il vento soffia, fa freddo, ha piovuto, ha smesso di piovere, sei andata via, mi si è spezzato il cuore, sei tornata e il mio cuore adesso va bene. Questo è quello che la gente vuole sentire. È provato dalle statistiche.
A questo punto cominci a pensare che il ruolo di un artista è quello d'intrattenere la gente, e che gli spettatori hanno pagato per vederti fare qualcosa che li soddisfi. lo personalmente vivo un conflitto a proposito di questo: credo che chi sta sul palco debba saper divertire il pubblico, oltre che suonare bene. Il che non significa limitarsi a fare le cose cretine. Ci deve essere la sostanza, dietro le apparenze.
Di solito, quando ho finito di scrivere una canzone, questa non appartiene più a me. Quando passo alla fase realizzativa, ci vogliono settimane per finirla; se c'è di mezzo l'orchestra, diventa questione di mesi. Prima di tutto bisogna imparare a suonare il pezzo, poi insegnarlo ad altri, è un lavoro massacrante. Di solito, al termine dell'incisione, preferisco non ascoltare più quel pezzo. In caso, dopo qualche anno, può essere piacevole riascoltarlo.
«Brain Police» fu un fenomeno perché nacque cosi. Ero seduto nella cucina della mia casa di Bellevue Ave. e stavo lavorando sopra «Oh no, I don't believe it», che al tempo era sprovvisto di liriche... e sentii qualcuno dietro la mia spalla che mi dettava certe parole. Era dawvero strano. Mi guardai attorno ... non c'era nessuno che stava dicendo: «Hey Frank, ascolta bene», ma c'era qualcuno. Per cui continuai a scrivere e nacque il pezzo.
DALLA PROTESTA SOCIALE ALLE ESPERIENZE PERSONALI
«Non sono diventato insensibile rispetto ai problemi della società, non sono meno cosciente, è solo che non ho uno stimolo particolare che mi spinga a scrivere canzoni ovvie a chiunque. C'è un pezzo nel nostro show che è veramente scontato per tutti: con tanto di R. Nixon a sguazzarci dentro. Ma io preferisco comporre cose come «Penguin in bondage» (La schiavitù nei pinguini, n.d.t.). Le mie esperienze sono diventate meno specifiche in un senso, più specifiche in un altro. Di solito componevo pezzi su fenomeni sociali largamente scontati cosicché in molti avrebbero potuto seguire il filo di qualcosa che avevamo vissuto. Ma questo è meno specifico rispetto alla mia esperienza personale. Prima riuscivo a scrivere sia di cose che fossero accadute direttamente a me oppure no. Negli ultimi tempi invece mi sono accadute tante di quelle cose strane che preferisco parlare delle mie esperienze personali e non d'altro. Ecco perché ho scritto pezzi come Montana e Penguin in bondage. Scrivo di cose che rappresentano la mia esperienza di persona.
«Montana» nacque cosi. E la storia di un uomo che sogna di coltivare dental floss (lanuggine, fili per la pulizia dei denti, n.d.t.) in un ranch del Montana. Un giorno mi svegliai e guardando la scatolina di dental floss pensai: hmmm. Credo che nessuno mai abbia provato quello che provai io di fronte a quella scatola, per cui ho pensato che era mio dovere di osservatore di floss riferire la mia impressione e spiegarne i termini di relazione fra il floss e me. Così mi misi alla macchina da scrivere e composi il pezzo. Non sono mai stato nel Montana, è uno stato enorme con solo mezzo milione di abitanti. Ci sarebbe tantissimo spazio per coltivare dental floss ... e l'idea di viaggiare in quel paese su un piccolo cavallo con un paio di enormi pinzette e spuntare al volo le pianticine che fanno capolino dai cespugli ... tagliare la parte più alta, caricarla sul carro e depositarla nel magazzino ... non è forse una cosa divertente da immaginare?
A volte mostro i miei testi a mia moglie, altre volte le chiedo di leggerli a voce alta per sentire come suonano. Parte di essi sono legati foneticamente in stretta dipendenza al contenuto. Cambio continuamente le parole prima di giungere ad una forma soddisfacente. A volte cambiano per caso. Qualcuno le legge male e se il risultato è divertente le lascio nell'interpretazione errata.
Ho sempre odiato la poesia. La odio davvero. L'idea di poesia la trovo ridicola. Non voglio fare generalizzazioni sociologiche, ma non c'è nulla che ci possa identificare... la sofferenza e l'azione del pugno chiuso sul torace, il piegamento della testa .. con le foglie che cadono dagli alberi, il vento che soffia. È tutta merda. La odio. Non mi piacciono nemmeno i libri. Leggo molto raramente. A mia moglie piace e ci scherziamo sopra spesso. lo le dico che ci sono due cose sbagliate al mondo: gli scrittori e i lettori. La cosa più sbagliata con gli scrittori è che essi si cimentano con una cosa quasi antiquata, anche se essi non se ne rendono conto, che si chiama linguaggio. li linguaggio è un prodotto dello sviluppo tecnologico. Considerate quello che gli slogan pubblicitari hanno fatto alla lingua inglese. Il significato delle parole è stato corrotto a tal punto che, da un punto di vista strettamente semantico, come è possibile realizzare in questa lingua un accurato servizio informativo?
Non sto dicendo che vorrei sostituire gli scrittori. Ho solo pena per essi. Costoro vivono una contraddizione simile a quella degli scrittori di musica, perché è altrettanto arduo comporre un accurato pezzo musicale su un pezzo di carta a causa di tutte le nuove tecnologie per suonare gli strumenti. Un altro problema consiste nel fatto che io non sono un gran cantante, per cui spesso devo far cantare ad altri i miei pezzi, se voglio ottenere un buon risultato. Conseguentemente, se costoro non cantano con le giuste inflessioni, il significato cambia.
Ci sono sempre un mucchio di problemi per ottenere un buon risultato. Gli unici a riuscire sono i pittori. L'unica cosa di cui si devono preoccupare è che i colori non svaniscano e che la tela sia ben stirata. L'importante è che non ci siano intermediari fra l'artista e l'opera.
Io credo, idealmente, che la giusta via dovrebbe essere quella di usare le parole solo per divertimento, perché la parola parlata, i suoni delle parole sono divertenti nelle differenze degli individui che le pronunciano. Ma, dal momento che l'informazione passa attraverso le parole, sarebbe bene se si potesse comunicare telepaticamente.
IL COMPITO DELL'ARTISTA
«Effettivamente ci sono un sacco di grattacapi su tutto il fronte. Perché preoccuparsi di tutte quelle cose tecnologiche? È la verità. lo non amo leggere, non leggo quasi per niente e odio la poesia. Tutto qui. Non è compito dell'artista educare quelli che non sanno.
È difficile per la gente credere che altri sappiano cose che loro non sanno. E supponiamo pure di sapere qualcosa che altri non sanno, e di volerlo dire in giro, bene, sorge un problema, perché, prima di tutto, questi non vogliono sapere. Se io ti dicessi: «Se tu sapessi quello che so io sarebbe meglio per te», allora comincerei a domandare a me stesso: "Voglio davvero fartelo sapere? ti farò davvero stare meglio? ma davvero ti aiuterei?''.
La vedo così sul serio. Ma non funziona troppo. Ritengo possibile che qualcuno possa far uso di ciò che dico e non dovrebbe essere mio compito diffondere maggiormente ciò che faccio. Va bene per pochi, non per tutti, perché non tutti possono farne uso e quindi non ne hanno strettamente bisogno e, infine, so già che se ne sbattono di quello che dico. Il motivo per cui in America c'è tanta gente che fa dischi è per poter mangiare. Tutto quello che so è che le poche volte che il mio lavoro è servito a qualcun altro io ormai ne avevo le palle piene».
CON ZAPPA A LOS ANGELES
Un'idea ancora più precisa di Zappa se l'è fatta chi, un anno e mezzo fa, era alla U.C.L.A., l'università statale californiana, per l'incisione dal vivo di un album poi mai pubblicato con l'Abnucleas Emuukha Electric Symphony Orchestra. La storia di quella sera vale la pena di raccontarla.
Fedeli alla leggenda secondo la quale da Zappa bisogna aspettarsi di tutto, ci stavamo awiando alla sala del concerto carichi di curiosità. Eravamo in due venuti da Roma. Ci aggiravamo per le stradine buie della città universitaria. Non c'erano indicazioni né persone a cui chiedere il senso dell'orientamento. Un cristiano che si aggirava nei parchi c'indicò una sala sportiva dove presumibilmente stava suonando Zappa già da dieci minuti. Di corsa su per la collina con il fiato grosso, biglietto alla mano ci trovammo davanti una specie di piccolo Palazzo dello sport illuminato a giorno.
Il controllo negli States è severissimo, almeno due, se non più posti di blocco da superare. Passato il primo, strappato il biglietto, in cima alle scale il secondo controllo strappò un altro pezzo di biglietto e c'indicò il settore dove sederci. Veloci come frecce io e l'amico ci precipitammo ai più vicini posti liberi. A prima vista sembrava una partita di tennis o forse di basket. Bah! pensai, guarda che trovate ha questo Zappa! Il tempo di sedersi, togliersi le giacche, tirare un sospiro di sollievo, mentre con la coda dell'occhio cercavamo d'individuare Zappa al centro della sala.
Musica non se ne sentiva ancora, però confidavo nella ennesima sorpresa. Ero contento perché anche se lo show era cominciato, ancora il bello, la musica, doveva venire.
Dopo un po' nacque il sospetto che quella era proprio una partita di tennis e Zappa non c'entrava per niente. Fra lo sconforto e la incredulità fu arduo realizzare che la sala non era quella, che i supercontrolli all'americana non avevano nemmeno notato che i nostri biglietti erano diversi. Via di corsa mentre il direttore dell'impianto ci spiegava come raggiungere un'altra sala dove si sperava Zappa stesse suonando davvero. Infine, dopo tutto il tempo perso eravamo davanti l'Abnucleas Emuukha Electric Symphony Orchestra. L'orchestra sul palco era una di quelle serie. Il maestro, per quanto bizzarro, pure. Perfino Zappa era serio mentre sedeva al centro della sala davanti pazzeschi macchinari per la registrazione di questo suo esperimento di musica contemporanea.
Un'ora è filata liscia così fra una cascata di suoni sconnessi con Zappa che si alternava alla direzione dell'orchestra con il maestro sempre più sudato. Il tutto, per quanto strano, risultata divertente. Alla fine Zappa, quando nessuno sapeva più che pensare e i commenti sussurrati erano cessati per lasciare il posto a una sensazione a metà fra lo stupore e la noia, ha voluto spiegare come aveva composto quella musica. La domanda che mi ponevo era come (al di là del valore discutibile dell'esperimento) (ma, si sa, in California s'impara ad accettare cose che qui da noi non verrebbero nemmeno prese in considerazione) avesse potuto scrivere su uno spartito quell'ammasso di suoni irreali.
Frank Zappa: « Il motivo per cui siamo qui lo sapete, vero? Era tempo che volevo cimentarmi in un lavoro che coinvolgesse una vera orchestra. La musica che avete ascoltato finora è stata composta di getto. Niente scervellamenti al tavolino per riempire gli spartiti. Qualcun altro ha pensato man mano a trascrivere una serie d'improvvisazioni culminate nell'esibizione di questa sera. Per essere più chiaro, eseguiremo adesso un pezzo improvvisandolo come abbiamo fatto durante la preparazione io e l'orchestra».
A quel punto Zappa introdusse il pubblico alla parte più interessante, più assurda di tutta la serata. Cominciò rivolgendosi prima ad un pezzo poi all'altro, poi a tutti contemporaneamente dell'orchestra. Con la voce e con i gesti chiedeva, ad esempio, al trombone, di ripetere una certa tonalità. Quindi, mentre a gesti e parole faceva capire al trombone di continuare così, si rivolgeva al violino, poi man mano, imitando con la voce i suoni e con le mani i tempi, al clarino, alla batteria, all'arpa, le trombe, l'oboe, le viole, il piano, la chitarra e così via. A quel punto Zappa scatenato, quasi in stato di trance, conduceva i 27 pezzi dell'orchestra, fra un «poh, poh, tzih, tzih, dlen, dlang, tunf, plin, tock, peeh, zum, din, fiuù ...» nell'esecuzione più sconvolgente della intera serata. La curiosità del pubblico era stata soddisfatta. Per quanto pazzo possa essere condurre un'orchestra in quel modo, Zappa lo trovava divertente, e cosi i presenti.
Vincent Messina