Frank Zappa At The Roxy
By Dave Alvin
Per raccontare l'unicità dei concerti di Frank Zappa raccolti in The Roxy Performances, ospitiamo il ricordo di un ragazzo che nel corso degli anni sarebbe diventato prima il chitarrista di una rock'n'roll band straordinaria e poi uno dei più importanti songwriter americani, con tanto di Grammy nella bacheca. Sì, sembra strano vedere in Dave Alvin un grande fan di Frank Zappa, viste le differenze generazionali, stilistiche ed esistenziali, ma il terreno in comune non è soltanto quello della South California.
C'è una sterminata passione per la musica che li ha avvicinati e molti dei dettagli rivelati qui da Dave Alvin in occasione di The Roxy Performances, aiutano a capire come certi confini siano del tutto labili, se non inutili e dannosi. Se The Roxy Performances è la prova solida e squillante di un artista (e di un gruppo) giunto a uno dei tanti apici della sua storia, la testimonianza di Dave Alvin racconta quanto la musica e i musicisti possano essere una fonte d'ispirazione inesauribile, un modello e un punto di riferimento.
Con un piccolo, curioso particolare, che aggiungiamo noi, ed è a modo suo rivelatorio: affascinato e colpito da quello che vide sul palco del Roxy, Dave Alvin trovò il modo per portarsene via un pezzo, visto che da anni suona con un amplificatore già appartenuto a Frank Zappa. Questione di dettagli, ossessione da chitarristi, ma anche il modo per ricordare che il posto dove Frank Zappa è diventato uno dei grandi artisti del ventesimo secolo è stato sul palco, senza filtro e senza soste. Non dovessero bastare tutte le incisioni contenute in The Roxy Performances, fidatevi di quello che dice qui di seguito, “the king of California” in persona.
Nel 1973 ero un disadattato di una piccola cittadina che aspettava in coda fuori dal Roxy per vedere Frank Zappa e l'ultima incarnazione delle Mothers of Invention. Se qualcuno mi avesse detto che nove anni più tardi, nel 1982, avrei incontrato Frank Zappa, tra tutti i posti possibili, sull'isola di Capri, non ci avrei creduto. Non sono nemmeno sicuro di crederci ancora oggi. Pur sapendo che proveniva dal sud della California, l'aura più grande della vita di Frank Zappa come un genio musicale e un conoscitore di tutto, lo faceva sembrare come se fosse caduto sulla terra da qualche distante e più progredita galassia, piuttosto che essere cresciuto nello sporco del Mojave Desert di Lancaster.
È stato surreale trovarmi ad avere una breve conversazione con Zappa nella lobby di uno lussuoso albergo a cinque stelle sull'isola di Capri invece di qualche taco joint a San Bernardino. Eravamo tutti lì per registrare le nostre performance per uno spettacolo della televisione italiana e lui se ne stava andando dall'albergo, proprio mentre con la mia band, The Blasters, stavamo arrivando. Pervia del caldo di quel giorno, Zappa portava solo dei pantaloni di lino bianchi e una maglietta, mentre noi Blasters con i nostri capelli impomatati nelle loro creste e i giubbotti di pelle sembravamo come i reietti di Zappa da Ruben and The Jets. Siamo rimasti davvero impressionati che quell'icona culturale fosse così gentile da parlare con cinque giovani rocker da tre accordi dalla città blue colar di Downey, nella Southeast LA. County.
Ho rotto il ghiaccio dicendo a Zappa che avevamo un comune amico, il cantante di East Los Angeles Ruben Guevara. Lui sorrise, ci chiese notizie di Ruben e disse:
“Voi ragazzi siete The Blasters, no? Ho sentito parlare di voi. Venite tutti da Downey-Norwalk, giusto?”.
Abbiamo annuito e allora ci ha chiesto cosa pensavamo dell'Europa. Gli abbiamo detto che non eravamo mai stati in Europa e prima e dopo un mese di tour laggiù, sentivamo la mancanza del cibo messicano e di casa nostra.
“Yeah” disse Zappa con un tocco di sarcasmo nella voce, e poi aggiunse: “C'è qualcosa nella parte a sudest della LA. County che non si trova in nessun altro posto sulla terra”.
Zappa ascoltava pazientemente mentre farfugliavo a proposito di tutte le volte che l'avevo visto in concerto quando ero un ragazzo, dallo Shrine Auditorium al Santa Monica Civic fino all'UCLA's Pauly Pavilion, ma quando ho citato il Roxy, i suoi occhi si illuminarono.
“Eri al Roxy? Quindi, cosa ne pensi?”.
Essendo agitato, balbettai la più semplice delle risposte: “Uhm... È stato davvero grande”.
Ora, trentacinque anni dopo avermi fatto quella domanda, ecco la risposta che avrei voluto dargli. Ero (e lo sono ancora) fondamentalmente ispirato dal blues, ma ho cercato anche ogni tipo di musica, dal primo rock'n'roll e rhythm and blues al doo wop, dal folk al country fino a tutte le forme di jazz e dei compositori moderni come Ives, Cage e Stockhausen. Sono sempre stato interessato a Zappa perché sentivo elementi di questi stili nella sua musica (con la possibile eccezione del country). Non importa quanto fossero complicate o cerebrali le composizioni di Zappa, potrei sempre trovarci tracce della cruda chitarra blues di Johnny “Guitar” Watson negli assoli di Zappa o potrei tirare fuori delle dolci e scomposte melodie doo wop fluttuando attraverso i suoi pezzi come la sua ode al desolato deserto della sua gioventù, Village Of The Sun.
The Mothers che suonarono negli spettacoli del Roxy erano in diversi modi la mia versione preferita del gruppo. Mentre ho sempre un tenero spazio nel mio cuore per la versione più anarchica degli anni sessanta delle Mothers of Invention (in particolare per le raffinate interpretazioni di Ray Collins, ispirato da Jesse Belvin), le Mothers del Roxy erano, per contrasto, una collezione di musicisti diversi, estremamente forti e talentuosi, con profili dell'altro mondo che sembravano in grado di interpretare qualsiasi tipo di musica Zappa gli proponesse. Sembrava come se Zappa avesse finalmente trovato un gruppo capace di suonare la musica proprio come lui l'aveva sempre sentita nella sua testa.
Nei primi anni settanta, la jazz-fusion imperava e le Mothers al Roxy, grazie in particolare al tastierista George Duke e ai batteristi Chester Thompson e Ralph Humphrey, potevano suonare quella forma ibrida alla perfezione, o meglio di ogni combo fusion dell'epoca. Potevano anche tirare giù dei tosti funk e poi, un momento dopo, trasformarsi in una bizzarra orchestra da camera atonale.
Il potente drumming gemello di Humphrey e Thompson riceveva un solido supporto rock dal bassista Tom Fowler che negoziava con grazia i bruschi cambi di accordo e di ritmo di Zappa, mentre suo fratello, Bruce, maneggiava alla perfezione le sue intense linee melodiche al trombone.
Il cantante e sassofonista Napoleon Murphy Brock mi aveva impressionato non soltanto per le sue capacità nell'affrontare vari stili di sax (dal free di Albert Ayler al suono di Joe Houston) ma anche con la vocazione soul del chitlin' circuite l'energia della sua voce e la sua presenza sul palco.
Le Mothers del Roxy erano una straordinaria combinazione di arte alta e bassa, di tecnica magistrale ed umorismo tagliente con un tocco unico di selvaggio abbandono. Ero particolarmente felice al Roxy di avere l'opportunità di vedere da vicino la straordinaria Ruth Underwood che passava con frenesia ed esperienza dal vibrafono alle marimba ai timpani per poi ricominciare da capo senza perdere una battuta o una bacchetta. l'inestimabile contributo di Ruth Underwood riportava le sonorità uniche ed eclettiche delle Mothers di Uncle Meat che avevo visto perdersi nelle più recenti line-up del gruppo. Devo anche ammettere timidamente che ho lasciato il Roxy quella notte con una cotta da ragazzino per Ruth Underwood che è durata per anni.
A guidare questa potente orchestra, owiamente, c'era Zappa. Se non stava suonando gli assoli sulla sua Gibson SG rossa che viravano da un complesso lirismo a ruvide linee blues, Zappa era intento a condurre i suoi musicisti o sorridere a qualche rumore tra i membri della band o orgogliosamente raggiante al Suo ensemble e a quello che erano capaci di suonare. Ho osservato i suoi occhi e i movimenti della sua chitarra, prendendo nota di come dirigeva il gruppo con questi segnali, a volte piccoli, a volte più vistosi.
Quella lezione è stata qualcosa che ho avuto modo di usare nel guidare le band che ho avuto nel corso della mia carriera. Con il passare degli anni, ho rimpianto di non aver ringraziato Zappa in quell'atrio dell'albergo sull'isola di Capri per tutto quello che ha fatto per me e per quelli come me.
Avrei voluto ringraziarlo per l'ampia educazione musicale che mi ha dato così come per il sano scetticismo che mi ha aiutato a vivere con una qualche sanità mentale nel nostro spesso insano mondo. Avrei voluto aggiungere che per un ragazzo che stava crescendo dove e quando stavo crescendo io, la musica e le canzoni di Zappa mi hanno aiutato a definire me stesso un po' di un outsider e di un ricercatore. Avrei dovuto dirgli che come la prosa di Raymond Chandler o la poesia di Charles Bukowski, le parole di Zappa catturavano il tempo e il senso del luogo di Los Angeles.
Le sue liriche, con i frequenti riferimenti ai luoghi meno famosi della Souther California come El Monte Legion Stadium o la sua citazione dello slogan del concessionario di Cadillac di casa mia “Where The Freeways Meet In Downey” in Billy The Mountain, davano all'insignificante e infinita desolazione suburbana delle cittadine californiane un qualche tocco di magia artistica e bohemienne.
I Beatles cantavano dell'Inghilterra, Dylan di New York City, ma Zappa (come Brian Wilson e Merle Haggard) cantava della California. Una strana, stregata, sotterranea California, ma non di meno California. Non so se era quello che Zappa stava provando a fare con la sua musica. Non so se a Zappa davvero interessava cosa pensasse qualche ragazzo da Downey con una cresta in testa del suo show al Roxy o cosa pensassi rispetto a lui e alla sua musica. Forse avrebbe dovuto scaricarmi essendo troppo smielato, dilettante o sentimentale. O forse no. Chi lo sa? Ad ogni modo, continuo a pensare che avrei dovuto dirglielo.