Un'orchestra «A basso costo»
By Riccardo Bertoncelli
«King Kong», in cui Jean-Luc Ponty è spalleggiato da Frank Zappa e da tanti grossi calibri della West Coast, è un disco famosissimo ma praticamente misconosciuto. Come mai?
Aventicinque anni, 1967, Jean-Luc Ponty era già «violinista dell'anno» nel referendum della rivista DownBeat, premiato con lode per la sua maestria su quello strumento insolito ma non sconosciuto alla storia del jazz, ricordando fra tutti giganti come Ray Nance e Stephane Grappelli. Ponty vantava studi classici ma era un ragazzo dei suoi tempi, aperto alle nuove musiche e al jazz soprattutto; e la militanza nel gruppo del pianista Jef Gilson, ai suoi vent'anni, lo aveva convinto a cercare nuove vie oltre l'accademia. Quando senti spirare i primi venti di cambiamento, Jean-Luc fece un passo oltre ed elettrificò il suo strumento, per integrarsi meglio, spiegò, con la saione ritmica cui chiedeva tensione ed energia. Trovo il partner ideale nel pianista Wolfgang Dauner e con lui firmo due lp più belli che datati: «Free Action» e soprattutto «Sunday Walk», l'album che diede a Ponty la prima notorietà e favori quel prestigioso premio.
L'Europa diventò in breve stretta per le ambizioni del ragazzo, che volò in America su invito di John Lewis, fu ben accolto al festival di Monterey e venne investito da una scarica di suoni nuovi e belle occasioni. Jean-Luc era motivato ma guardingo, se non diffidente, e non aveva alcuna intenzione di spendersi a prescindere. Selaionò piuttosto con cura, e scelse due interlocutori sopralttutto: George Duke, giovane tastierista dalla travolgente personalità, e Richard Bock, produttore colto e curioso, l'uomo che con la sua etichetta World Pacific aveva fatto conoscere Ravi Shankar negli Stati Uniti e scoperto i giovanissimi Byrds. Con Duke incise due lp interlocutori, facendo forse un passo indietro rispetto alle intuizioni di «Sunday Walk», mentre Bock fu l'uomo del destino, che un giorno dell'estate 1969 lo porto da Frank Zappa, nei giorni in cui il grande eccentrico stava progettando il capolavoro di «Hot Rats». Zappa appreno molto quel musicista francese taciturno e sulle sue, tanto da chiedergli un intervento in un brano che ancora rimaneva aperto, It Must BeA Camel; e fu lusingato dalla proposta di Bock, che lanciò l'idea di una collaborazione più estesa fra i due: un long playing con le musiche di Zappa riarrangiate per violino e piccoli ensembles, con il bonus finale di un pezzo orchestrale, il sogno per niente segreto del musicista italoamericano.
Cosi nacque «King Kong», una meraviglia che non ha mai ricevuto gli apprezzamenti che avrebbe me ritato e oggi ancora figura fra le testimonianze più belle della musica di quei giorni, con il valore aggiunto della sua elusività, davvero oltre ogni definizione di ge nere. Zappa aveva composto splendidi temi fino a quel momento, eseguiti però da una band che non lo aveva mai soddisfatto completamente in termini di esecuzione. «King Kong» era un modo di rivalutare quei materiali, foe se la beffarda melodia di Idiot Bastard Son o il tema della title track, quanto più vicino al puro jazz Zappa aveva composto fino a quel momento; o ancora Twenty Small Cigars, una delizia all'epoca inedita in cui qualcuno ha giustamente trovato tracce di certa voluttuosa malinconia mingusiana, o America Drinks And Goes Home, cabarettistico ritratto in musica di «un gruppo di ubriachi che barcollano davanti al bancone di un bar». Con tutto il bene che si poteva avere per le registrazioni originali, non c'era dubbio che nelle nuove versioni quei peni luccicassero meglio; con il tagliente violino-guida di Ponty e gli ottimi interventi dei collaboratori chiamati in studio, da George Duke a John Guerin, da Ernie Watts al grande Buell Neidlinger.
Zappa gradiva ma, comme d'habitude, brontolava. A suo avviso il budget dell'album era giusto un quinto di quanto necessario, e questo valeva soprattutto per la lunga suite della seconda facciata, dove si intessevano altri terni del suo repertorio, con il violino in dialogo con una orchestra di undici elementi anziche i 97 previsti (e quindi, appunto, Music For Violin And Low Budget Orchestra). Ponty non aveva di quei patemi: e con gioia siglava un brano di ringraziamento, How Would You Like To Have A Head Like That, una frenesia per sestetto jazz rock con Zappa alla chitarra e l'amico Duke alle tastiere, che nelle note Leonard Feather segnalava come il pezzo migliore.
Troppo generoso, Feather, però aveva capito che fra i due era scattata la scintilla e quella non sarebbe stata l'unica occasione insieme. Tempo tre anni e Ponty, con l'inseparabile George Duke, sarebbe stato arruolato in una delle migliori formazioni zappiane di tutti i tempi, quella del primo tour in Italia nel 1973.
«KING KONG» (World Pacific Jazz, 1970)
Jean-Luc Ponty (violino
elettrico e baritone violectra), Ernie Watts (sax alto, sax tenore),
Ian Underwood (sax tenore), George Duke (piano, piano elettrico),
Gene Estos (vibrafono, percussioni), Frank Zappa (chitarra), Buell
Neidlingor (contrabbasso), Wilton Folder (basso elettrico), John
Guerin e Art Trìpp (batteria). Glendale, Calìfornia. 6-7 ottobre
1969.