Parabola di Willie The Pimp

By Riccardo Bertoncelli

Gong, January 1976


La nostra appassionata dichiarazione (Beefheart è stato il più grande bluesman dell'ultimo decennio) non troverà certo molti consensi. C'è ancora la convinzione, infatti, che bluesman sia il menestrello pasticciato di nero, il venditore di fumo Chicago, il collezionista di Muddy Waters - Robert Johnson: alla plupart du monde sfugge il senso del blues come esercitazione di anarchia, come libertà assoluta, come improvvisazione con poverissimi mezzi.

Non ci tiriamo indietro, naturalmente. Beefheart ha studiato blues nella mente più che sulla carta, lo ha giocato nella vita, lo ha disegnato con le linee sghembe di chi sa rifiutare il rifugio del revival per muovere alla conquista di una storia da verificare nella realtà. Il suo è il piglio del naif che usa gli oggetti della musica senza curarsi della educata maniera; l'atomica gli scoppia in bocca, la voce prende pieghe amare, la batteria si umilia verso l'ossessione e l'incubo nel nome di una devastante necessità. La tranquillità assicurata dalle eroiche gesta chicagoane lascia il posto allo sgomento, al terrore: ascoltare Beefheart, sentirsi vomitare addosso i tempi e i ritmi, i silenzi e le perfide parole, è cruda esperienza di scoperta, viaggio malizioso verso l'immaginario.

La lingua beefheartiana, dimostrata con essenziale veleno sin dalle prime uscite (Mirror Man), è arma semplicissima. La voce, al centro dell'intrigo, si scuote in fremiti continui, ha paura della propria energia e pure la stimola, strozza la superbia e sa esaltarsi all'infinito: strumento tra gli strumenti, comanda agli altri arnesi con forza aggregante, tirando i fili delle chiacchiere sparse e non rifiutando talvolta (si pensi all' ottima Frownland, sul Trout Mask Replica) ad esistere sola, con splendida autonomia. Gli altri oggetti mordono la propria dimensione « sporca »: la batteria è percussione, gioco di dita su un pezzo di legno, la chitarra è tamburino magico dove le corde son prese a graffì, percosse, stravolte dall'impiego dell' elettricità. Dalla rappresentazione vien fuori fumo, e la interminabile lingua della gioia: se la « replica della maschera di trota » è precisa nel raffigurare « tutto Beefheart » (come un Gran Bestiario, come un'enciclopedia che non dimentichi alcuna piega), Strictly Personal è forse il fuoco più intenso, l'idea inarrivabile che sa colpire e toglier saliva di bocca.

Che profonda differenza con l'oggi! Il Beefheart degli ultimi 4 dischi ha voluto il bavaglio, ha barattato i magnifici acquarelli « fatti in casa » con una scatola di tempere plastificate e gioca a seguir le onde del «come dovrebbe essere», tra la risacca dell'hard, il vento degli anni '50, la stupida ebbrezza della « nuova elettricità ». Tolto dai marciapiedi del mondo, dove disegnava con gesso e matite economiche, l'eroe della strada è diventato fumetto, piegato ad una educazione assolutamente senza vita. La voce, immutata ed immutabile, esce di malavoglia e non sa più dove dirigersi, come l'incubo Tim Buckley degli ultimi mesi: a chi gridare Gimme Dat Harp Boy, come vincere la solita battaglia contro gli spettri?

Il gioco è sempre stata la chiave per entrare nel luogo beefheartiano: gioco come vita, come semplice forma di espressione, come divertimento dal becco adunco. Forte di una fertilissima fantasia, l'uomo ha sempre esorcizzato il mondo popolandolo dei propri fantasmi, piegandolo ai sogni e alle carezze, ai turbinosi jokes: di qui una personalissima cosmogonia, una serie di « ritratti in codice » che possono evocare (come il padre nei confronti del figlio, naturalmente!) le figurine del Mondo Gnomo di Daevid Allen.

Così la famiglia del complesso, lontana dalle ragnatele del mestiere, ha sempre avuto addosso la polvere della fantasia: nei nomi (Mascara Snake, Winged Eel Fingerling. Drumbo, Oréjon), tenerissimo modo di combattere il freddo dei rapporti umani: nell'abbigliamento (cilindri, palandrane buffe, occhiali lunari, i baffi verdi di Artie Tripp, la sfilata futuristica all'interno di Strictly Personal): nei gesti sulla scena, liberi e divertiti ben oltre i terapeutic chacs delle Madri beneamate. Così le canzoni hanno sempre amato il paradosso, l'assurdità palese, il piccolo sfregio alla normalità: i testi della Replica, colmi di animali buffissimi, di « porci cinesi », di « grosse Joannah » dall'improbabile costume: i dialoghi sullo stesso disco, seriosi e geniali (« Non così » ordina il Capitano a un indisciplinato Mascara Snake, sulla first side « Suona più veloce. Più veloce e bulboso! »): l' intricato svolgimento di Ella Guru, che si tramuta d'improvviso in un valzerone bandistico: il finale di Beatle Bones & Smokin' Stones, su Strictly Personal, dove il Capitano termina di sgranare il rosario beat annunciando con voce catastrofica « Strawberry Fields Foreverrrrr »...

Il catalogo potrebbe avere mille pagine. Ma attenzione ai paragoni, ai riferimenti, alla intera segnaletica culturale! Beefheart è un desperado senza vicini di casa, un eremita senza prima né dopo. Ai curiosi potrebbe rispondere come a quel giornalista che un giorno domandò conferma dei suoi legami intellettuali con Tristan Tzara. « Tristan Tzara? Conoscevo un suonatore di banjo che si chiamava Tristan Tzara! ».

Il triangolo Beefheart – pubblico – media è una delle più interessanti figure geometriche del pop. Nel rapporto intricato ed ambiguo con la realtà del consumo musicale, l'uomo è sempre stato disegnato come personaggio, vedendosi negata ogni dignità artistica: di qui una valanga di equivoci, l'atteggiamento falso adorante degli ammiratori ad oltranza, la manovra subdola di chi ha seminato indifferenza negli « anni buoni » per poi raccogliere la pianta storta della leggenda.

A parte un clamoroso intervento di Rolling Stone (che, giocando al progressismo freaky, recensiva Trout Mask Replica citando Ayler e Shepp, con il risultato di chiuder maliziosamente Beefheart nel ripostiglio dei « difficili quasi jazzisti ») non c'è traccia dell'uomo nelle cronache ufficiali degli anni '60. Le poche parole spese passano per il buffo soprannome, per l'eclettico modus esteriore della Band, per i testi che danzano provocatoriamente pigliando il mondo per il bavero: le etichette povere che s'incaricano di dargli asilo lo dimenticano oltre l'angolo, il pubblico, incantato dagli ultimi fuochi pop, non lo segue e non lo scopre oltre la siepe dell'appariscenza. Sino al '72, sino all'ultimo bacio con la Reprise, Beefheart è l'« infido amico di Zappa », il pazzo, l'esecutore di Willie The Pimp. Tollerato a denti stretti, scava un tunnel profondo nel cuore dei fans dalla mente sveglia: sarà da lì, dalla schiera di carbonari che in epoca di riflusso prenderan la toga degli « illuminati », che il Business giocherà la sua Partita Classica, muovendo a scacco in poche mosse sulla povera lucidità dell'uomo.

Già la casa di Burbank, ai tempi dell'ultimo Clear Spot, tenta di recuperarlo in chiave ironica, proponendo un unguento a modico prezzo contro le ustioni della crisi: vestito l'eroe con la demenziale cura di Spotlight Kid, rassettata la musica sulle coordinate di un'accettabile « bizzarria », messi in cantiere testi eccentrici ma non troppo, si fa circolar l' immagine dell'« anarchico selvaggio », vendendo a chilo la disobbedienza un giorno pericolosa.

Se il gioco fallisce (nonostante tonnellate di carta sulla quale Beefheart racconta tutta la propria santissima «anormalità ») è perché i tempi non sono ancora maturi per questa celebrazione del tempo perduto: la Virgin 1974 centra il bersaglio con mano saldissima, giocando d'equilibrio tra la stranezza dell'eroe e la propria magnanima inclinazione per gli emarginati. La commedia è tutta da gustare, soprattutto a livello visivo: pettinato amorevolmente, strappato con dolcezza al vecchio disordine, l'uomo vien proposto come campione del grottesco, come monumento di se stesso e della sua travolgente perfidia. Dietro il solito fumo della comunicazione, del « discorso alla massa », Beefheart si perde e si fa impagliare; la musica sempre più eguale ai desideri (quelli aggiornati, con periodici annunci sul Bollettino della Nuova Generazione) ingoia in fretta i vecchi valori e finisce col non trovarne di nuovi, seguita in questo dalla povera umanità del personaggio, ormai ridotta a brandelli.

Lo Zappa che un giorno 1975 piomba sulle ceneri del discorso per cavarne qualcosa, con tempismo tutto americano, non fa che portar la vicenda alle estreme conseguenze. Incapace di dettar condizioni al mondo circostante, Beefheart è preda di coloro che « regalano spazio » in cambio di ottime interpretazioni: nelle Mothers degli anni '70, già ricche di pagliacci tuttofare (Napoleon Murphy) e di vecchi professori di Conservatorio (Jean-Luc Ponty), il buon Van Vliet può recitare la parte del vecchio bizzarro, seduto su una seggiola di folclore che domani potrebbe veder assisi mangiafuoco, acrobati cinesi, deliziose femmes impiumate o chissà cos'altro. Chi parla di collaborazione bluffa sul proprio vaneggiamento, e ben lo sa; tra un razionalissimo ingegnere di musica e un campesino inurbato a forza può esserci solo odio o cortesia all'antica, e mai fecondo scambio di idee. Il che, tradotto in parole povere, sta a significare « sfruttamento », in senso lato; che poi è la morale di ogni clamorosa rappacificazione, oltre il discorso leggendario cui si è già accennato.

Il problema sta nella tenuta. L'investimento sul Beefheeart 1975 si misura con un occhio alle classifiche del Billboard e uno sguardo alla « fame di mitologia » dei quindici-sedicenni. Per noi, vecchi ubriachi di osteria, ogni discorso è chiuso: al massimo verrà un Lp di inedite cose, tra un anno o più, o forse una smagliante edizione delle « più incredibili poesie dell'uomo », su carta patinata e timbro a secco dell'Ineffabile Organizzazione Zappa.

BEEFHEART - O - RAMA

1941 : Nasce a Glendale, California, dai gentili signori Van Vliet. Si afferma reincarnazione di un pittore olandese del "700: l'ambasciata dei Paesi Bassi smentisce seccamente.

1950: Entra nell'età della ragione con notevole anticipo sul previsto. Disegna animali impossibili, modella inquietanti sculture. Un artista californiano, Augustonio Rodriguez, lo prende sotto l'ala protettrice e cura piccole mostre terribili.

1955: Si trasferisce con la famiglia a Cucamogna, centro vinicolo californiano ( produzione di Cabernet ottimo quanto sconosciuto). Lì incontra Frank Zappa ancora Ruben Sano; insieme frequentano il locale Istituto Tecnico e dissertano sul significato della vita.

1960: Donald Van Vliel comincia a farsi chiamare Captain Beefheart, senza apparente ragione. All'epoca, l'uomo è grasso, con occhi lucidi, peli sparsi e abbigliamento pachuco: due esperienze musicali assieme allo Zappa (Black Out e The Soots) falliscono miseramente.

1963: Beefheart scappa a Los Angeles per lare il musicante. Zappa ha già fatto quella scelta da tempo, e ha già aperto il suo famoso studio di registrazione. I due, naturalmente, non s'incontrano.

1965: Prime registrazioni con una band formala da Alex Saint Claire e Jimmy Semens (gtr), [Jerry Handley] (b) e Drumbo (dr). Due 45 giri per la A&M (tra cui una versione di Did Wah Diddy di Bo Diddley) son mandati al macero. « One night in Los Angeles » prende forma un po' di musica : verrà messa in giro solo cinque anni più lardi, dalla Buddah.

1966: Beefheart comincia a girare il mondo con una formazione propria, la Magic Band. Componenti sono Jimmy Semens e Ry Cooder (gtr.), Herb Bermann (b) e John French (dr).

1967: Primo disco del personaggio, Safe As Milk (ristampalo negli anni seguenti come Dropout Boogie o Plastic Factory). Durante la registrazione di Doctor of Electricity, un « armonico » della voce dell'uomo la saltare l'impianto di registrazione.

1968: Nuovo disco (Strictly Personal), questa volta per la Blue Thumb. La Magic Band è ora composta da Alex Saint Claire (glr), Jeff Cotton (gtr), [Jerry Handley] (b) e John French (dr.). L'ineffabile leader continua a cantare e a suonar l'armonica. La critica ride.

1969: Beefheart si ritira a San Fernando Valley, presso il Canyon della Morte, con la moglie Jan. Un giornalista di Rolling Stone che va a trovarlo racconta in un articolo sbigottito del mondo dell'uomo, delle sue poesie «incomprensibili », delle facoltà medianiche, dei lunghi discorsi di Beefheart con ogni tipo di piante (« Prediligo gli eucalyptus »).

1970: Frank Zappa, in vena di beneficienza, si ricorda del vecchio amico e lo « usa » per le registrazioni di Hot Rats (Willie The Pimp). Contemporaneamente lo introduce alla Straight, la solloetichella della Bizarre voluta dalle Mother e da Herb Cohen: «fa quel che vuoi», dice il padrone, senza intuire il disastro.

1970: Esce Trout Mask Replica, disco doppio «estratto» da una session notturna di 8 ore. Con il Capitano (che ha scoperto i fiati) sono Zoot Horn Rollo (gtr), Jimmy Semens (gtr), Mascara Snake (cl e voce), Rockette Morton (b): producer è Frank Zappa.

1970: Con la stessa formazione di Trout, il nostro eroe incide Lick My Decals Off Baby, tirandosi dietro gli ultimi improperi della critica. Nel frattempo un bootleg celeberrimo, Gulp, racconta inedite cose del personaggio. Corre voce che la Blue Thumb possieda nastri di Beefheart con Howlin' Wolf.

197l: Violento litigio tra « cuor di bue » e Zio Frankie, ampiamente ripreso dalla stampa: Zappa è accusato di non aver propagandato sufficientemente il verbo di Trout Mask Replica. Il padrone liquida Straight e Beefheart in un colpo solo, tanto per finir la discussione.

1972: Stanco e malandato, il vecchio Van Vliet incide due pessimi Lp per la Reprise, Spotling Kid e Clear Spot, rimescolando continuamente i musicisti al seguito. L'ultima formazione che gli resta in mano comprende Zoot Horn Rollo, Rockette Morton, Ed Marimba (drums) e due ex-Mothers, il bassista Roy Estrada (Oréjon) e il chitarrista Elliot Ingber (Winged Eel Fingerling). Primo tour europeo. La Reprise rompe il contratto per le « assurde pretese dell'artista » (« Volevo semplicemente un albero in sala di reaistrazione»).

1973 : Silenzio. Zappa dichiara alla stampa «Beefheart? È il nome di un insetticida?».

1974: La Virgin Records inventa uno scoop e si assicura le prestazioni del maestro ormai leggendario. Spedito in fretta da un visagista e da un rnaetro di canto, il « cuor di bue» ci opprime con un debole disco, Unconditionally Guaranteed. La nuova Magic Band si snoda con Zoot Horn Rollo, Alex Saint Claire, Rockette Morton, Artie Tripp (d) e Mark Marcellino (tastiere).

1974 : Esce il secondo disco inglese, Bluejeans & Moonbeans, fastidioso e inutile. La Magic Band è sfigurata e priva dei suoi famosi guerrieri.

1975: Clamorosa riappacificazione con Zappa: i due suonano insieme in molte gigs, tra la primavera e l'estate, e portano a termine un disco, Bongo Fury. Nel frattempo, il Capitano si diverte a smontare e ricostruire la Magic Band e non perde i contatti con la Virgin londinese. Discreto insuccesso a Knebworth, al principio dell'estate, nel corso dell'ultimo super festival « quasi come Woodstock ».