Un riscatto per i sintetizzatori?

By Riccardo Bertoncelli

Gong, September 1977


Un riscatto per i sintetizzatori?
La macchina dura

L'« arma definitiva » che Luigi Russolo implorava sin dai giorni del primo Conflitto mondiale fa bella mostra di sé nell'arsenale contemporaneo, presenza inquietante cui l'abitudine non può togliere la vera maschera tremenda. Si badi bene: in una scatola di piccole proporzioni, maneggevole alla portata di tutti, si cela il « rumor bianco » dell'Inizio e della Fine, la pietra fiolosofale che porta in palmo ottoni ben temprati, legni di radica dura, corde squillanti, pelli stagionate. Schiacciando il bottone, collegato il filo (che non finisce o termina nel culo di quei demoni che animano i trittici boschiani: ma nessuno vorrà dirlo mai) si chiamano i suoni dai cieli lontani, paradoiando un rito antico e solenne: il « giocattolo », bello accessibile sempre meno costoso, dona a tutti il potere della grandine e dello sterminio nel momento stesso in cui illude della sua innocuità. Violata la consegna, son sette anni di guai.

Il problema ci pare di natura etica. La nuova scuola minimale, che se l'è posto, ha preferito masticar trentatré volte il chicco di riso della tradizione; altri, come Charlemagne Palestine, han maliziosamente avvertito di « non esser pronti », scoprendosi addosso (è il caso di dirlo) meravigliosi misteri sonori. Ciò non ha impedito, naturalmente, che l'Internazionale dei Mercanti tirasse dritto sulla via del « progresso », edificando un altro quartiere della sua città per nulla « solare ». Nuove strade, nuove case son state intitolate al sintetizzatore, Moloch dalla pelle dura che promette potenta, autorità, dominio; il bisbiglio cede al rombo metallico, la disperazione vuole che il grammofono degli uomini annienti il « rumore di Johnson », l'eterno ronzio delle stelle. (Paura del suono, quello vero e imprendibile, quello che si fa beffe anche della tecnologia più sofisticata, come dice il celebre aneddoto della « camera anecoica » di John Cage.

Si « riscrive » la storia della musica dando ragione alla fosca profezia di Benjamin; il sintetizzatore colora Mozart e Sebastian Bach, Orlando di Lasso e Debussy come un tremendo E 123 mai vietato e non degradabile. Nel suo artiglio, si sbriciola edipicamente anche la « preistoria » dell'elettronica; i 'giovinetti' di Stockhausen tirano l'arco e non conoscono il fuoco, mille anni prima del cannone e degli chassepots. Nei « quartieri bassi » l'aria è ancor meno respirabile. Il synt (così con gergo frivolo; nome egualmente rassicurante portava il grande fallo Krupp) è nresente in ogni piega della più recente pop music, come arma decisiva di banalità, come contributo fatale al già precario disegno della « musica percettiva ». Unici a ribellarsi, i « nazionalisti » del rock and roll, per cui vale il « dogma presleyano » (chitarra, voce e batteria); evitando ogni possibile conflitto, i mercanti creano la zona franca del jazz rock. inventando uno sterminato paese per il nuovo « prodigio » della tecnica.

La critica non ha ancora definito attentamente i connotati Kitsch della nuova musica « sintetizzata ». Eppure, tra le frequenze del moderno « intonarumori », si coglie nitidamente il precetto del « cattivo gusto », per cui scopo è il « bel lavoro » e non mai la « buona opera ». Fine della perversa esperienza è lo stupore in tutte le più incredibili forme; la fittizia « novità » surroga il contenuto, il veloce carosello delle più vistose immagini zittisce laspirazione a calarsi verticalmente nell'opera. Lo « spettacolo », nel senso hollywoodiano del termine, è costituito dall'eccezionale spiegamento di forze (Rick Wakeman o chi per lui vale i registi di kolossal di quindici anni addietro) ovvero del « travestimento » timbrico che incuriosisce e attira l'orecchio; in ogni caso, quel che accade è goffa parodia della vita, che svilisce l'espressione culturale a fenomeno da circo equestre. (Si tracci una mappa delle ulcerazioni da synt. Non solo i paladini metallici di certo rock inglese ma anche seri professorini di Harvard, dal George Russell dell'allucinazione mysolidienne al John Appleton che anni fa coinvolse Don Cherry nel gorgo della human music).

Non tutti restano pietrificati. Michael Waisvitz partecipa da anni con successo alla scommessa baileyana, Morton Subotnick spende le notti a suscitar suoni difficili, catalogandoli poi secondo la geometria del cristallo di neve. Qualcuno riesce a non bruciare di fronte alla spaventosa « possibilità energetica ».

Vogliamo dire: di Richard Teitelbaum e di Time Zones, di Alvin Curran e del suo Canti e Vedute dal Giardino Magnetico. Costoro pregano per la salvezza del sintetizzatore disinnescando la Bomba N della onnipotenza e procedendo timorosi nel campo dei suoni. Pur essendo in qualche modo « consanguinei » (entrambi discendono dal colle:tivo di Musica Elettronica Viva, che operò tra Roma e Parigi nell'ultimo scorcio dei Sessanta), Teitelbaum e Curran elaborano soluzioni diverse e difficilmente comparabili: al primo, sulla scorta anche di passate esperienze quali il nucleo di World Band. preme la scoperta e la verifica dell'alea esecutiva, al secondo interessa la tranquilla catalogazione di materiale estremamente diverso e in qualche modo « tradizionale » al fine di un disegno a largo respiro che dia nuovo senso alla melodia. Tra le mani dei due autori, al vaglio di una squisita sensibilità, il suono individuo riacquista vigore e brilla di nuovi riflessi; bandita la chiacchera e il rito della vanità, si afferrano le moleco!o;: del suono cercando di conservarle intatte, con i molti gusci protettivi di cui è traccia all'orgine.

Teitelbaum scandisce ritmi solenni, come una Messa profana; in un brano almeno, Crossing, il « luogo esecutivo » ha tali volumetrie e profondità da stordire chi vi tende l'orecchio, infinitamente ricco di suggestione. Voce asciutta ed estremamente misurata, il suono del sintetizzatore regala proiezioni eterne al vigoroso « recitativo » di Anthony Braxton; tanta è la discrezione nel cavar materia dall'intona rumori che nel secondo brano, Behemoth Dreams, il vero « mostro sonico » (così l'autore stesso, nelle note) risulta il clarinetto contrabbasso, ancia la più arcigna e proterva. Curran è anche più delicato, ma di una dolcezza vaga, estatica, stordita. I suoni ch'egli suscita non han la trasparenza di certi « grumi » di Teitelbaum e paiono colti ad uno stadio inferiore del processo di decantazione; ubriachi della loro stessa forza, i rumori cantano con fare dolente, celebrando così, in una indefinita foschia sonora, la vita e il suo divenire. Curran li distilla e li oppone ad altre « monadi » della Grande Madre Sonora: flicorni, campane di vetro, scacciapensieri, strumenti esotici penetrano il tessuto musicale al pari del vento, dei fili dell'altra tensione, delle rondimi dei passi di un uomo e di una donna.

Cosi l'artista infrange la erudele regola contemporanea per cui, paradossalmente, il vento sonoro instaura, il dominio del silenzio più profondo: in fondo alla 'prima semina' del Giardino, emerge una vecchia hallata popolare la cui desolata bellezza pare celebrare il riscatto della macchina odiosa.