Absolutely Free

By Riccardo Bertoncelli

Ciao 2001, September 1, 1974


Il ghigno di Frank Zappa cominciò a risultar noto (e famigerato) un giorno del 1967, quando sfogliando a caso i patinati dischi della prima « corsa all'oro » trovammo Absolutely Free e quella foto rese leggendari: lui occhio magnetico e la scritta « Uccidete la Radio Brutta! ». Era un'epoca di luci forti, con l'orecchio teso ai guizzi e ai ripensamenti Beatles ma già le prime serpentine oltre il marciapiede – Pink Floyd, Jimi, Byrds – e lui con volto affilatissimo da perfido D'Artagnan si offriva di liberarci da tutte le maldicenze e dagli incubi notturni e da Eleanor Righby per la modica somma di quattro dollari e novantanove ... benvenuto!

Freak Out!, il primo album nel 1966, aveva già spianato la strada. Il beat era mangiato, il rock riappeso ali' attaccapanni ma con le parti invertite, qualche goccia di sperimentalismo vagava nella grande torta dello stile rifatto vergine: e c'erano idee a bizzeffe e parole e stranguglioni, c'era il divertimento e il fuoco d'artificio, e tutto aveva l'aspetto di un Grande Attimo Sballato, di un collage assolutamente fatto a mano. Absolutely Free mi viene in mente proprio in questa dimensione. Sarebbe stato cosi facile per Zappa ripetersi, perdere il ritmo, scrivere tonnellate di inutili cose agghindate poi con le coccarde di una vana « bizzarria »: perché un solo album era scorso ma già si parlava di stile nuovo, di scuola addirittura, di stirpe e cose simili, tant'era chiara la diversità dell'uomo e dei suoi guerrieri. E invece no: nessun « ripetersi », nessun fare il verso alle cose già dette, nemmeno un velo di mestiere o di ipocrita astuzia: ma botti, fragori, colpi d'ascia e di archibugio, assalti violenti e sgangherati contro il muro del « normale », alla ricerca di uno svitato ed elettrizzante nuovo mondo d'essere.

Pochi albums, in tutta la fiaba del pop, sono così agqressivi e maligni, tanto travolgenti e decisivi: non c'è tempo di respirare, lungo i tornanti del disco, nemmeno un secondo per alzare il capo tante sono le soluzioni, i colpi di tosse, le meditazioni e le cancellature, le novità. La musica sputa e si arresta mille volte, e mille volte riprende: e ora c'è lo sbarleffo di Elvis Presley, ora compare Eric Clapton « tale e quale », ora s'intona un lunatico ballo e poi viene la parodia del R&B, e così oltre. I colori accecano, nel passarci innanzi cosi velocemente: e la gioia grande nasce dalla spontaneità dell'affare, da quel rinunciare a facili costruzioni che fa sì che tutto appaia come un volo libero e felice, la serenata personalissima di Francis Vincent Zappa alle stelle.

La prima facciata è un campionario di cose incredibili, un grosso libro di magia e disordine tenuto insieme da un filo sottilissimo, l'amore strano di Zappa per il mondo vegetale. Le composizioni, infatti, s'intitolano Introduzione e danza del giovane pompelmo, Il duca delle Prugne, Chiama i vegetali – con tutto quello che poi ne nasce, parole affilate, concetti appuntiti, piccole orride assurdità –, Le feci sono vegetali. Ma è la musica che conta, è il suono che ammalia e picchia in testa con precisione: dato che il signor Zappa sa divertire (e divertirsi) come pochi, dato che i venti minuti gentilmente offerti sono cosparsi di chiodi e bucce di banana e tanto per cominciare (ricordiamo che il 1967 era l'anno del miraggio della suite ... ) i pezzi sono tutti attaccati, messi insieme, stretti vicino vicino, senza l'improvvido distacco di una canzone dall'altra.

Si comincia con una voce stentorea che annuncia « Signori e signore, il presidente degli Stati Uniti » e poi via, una cavalcata tra pezzi triviali e canzoni (ma di quale fatta poi vedremo) dove dominano assolutamente le chitarre e non c'è spazio per grosse avventure orchestrali (come dicono le note: « Tutti i brani di questo disco, ad esclusione di Brown Shoes Don't Make It sono eseguiti dalle Mothers e basta... »). Meglio così: perché tutto è nevrotico, immediato, ossessivo, e già l'inizio di Plastic People ha il sapore di un colpo di fu. cile alla schiena, con la batteria petulante e tutte quelle interruzioni, l'energia che scivola e perde l'equilibrio, le voci... Ecco, le voci: qui forse sta la più grande invenzione dell 'album. Zappa, infatti, sa abolire perfidamente la forma del «monologo cantato», del soliloquio preciso e grigio sopra il tappeto degli strumenti. Qui tutti cantano (o meglio strillano, fanno rotolar parole) e ognuno ha una parte e tutto si confonde, si annoda e poi si risolve come in un'operetta per gli anni '80: e inoltre, ad aumentar l'angoscia, la musica accetta questa rivoluzione di schemi, lasciandosi sopraffare dai cori sboccati e dagli slogans e dalle frecciate cerbali, come in un incubo coloratissimo. Il risultato è evidente: pezzi come Amnesia Vivace o Call Any Vegetable scappano a gambe levate da qualunque scenario di « buona musica », e mostrano spudoratamente quale sia il complesso di Edipo del pop, fottere l'educata normalità.

Comunque direi soprattutto dei brani che mi affascinano, e cioè Duke of Prunes, dove la ruota si ferma e dalla scatola cinese del disco appare per un attimo (ma solo per un istante) il volto più tenero di Frank Zappa, una filastrocca lenta e malvagia, che poi tornerà mille volte nei rivoli sonori del compositore: e poi l'Introduction già citata, che altro non sarebbe se non un lungo assolo di chitarra tra l'ambizioso e l'annoiato, però senza copiature ai mostri dell'epoca e con i primi cinque minuti di sana energia zappiana allo strumento (ricordiamo che troppo poco si è parlato dell'uomo chitarrista, chi ha tempo e voglia di ascoltarsi Nine Types of Industriai Pollution sull' Uncle Meat faccia un salto da noi, un giorno o l'altro, e ci racconti della cosa...).

La facciata B (seconda parte di una serie di Oratorii Underground) non è meno spumeggiante e imprendibile. I brani strisciano sempre tra il surreale e l'assolutamente libero, il ritmo tossisce e poi s'infiamma d'improvviso: così alla distratta introduzione di America Drinks segue il rituale dardegqiante di Status Back Baby, giù fino alla perdizione assoluta di Son of Suzy Creemcheese, che resta uno dei più incredibili gioielli zappi ani: voci dispiegate, un ritmo turbinoso e il sudore che imperla la nostra fronte, anche se tutto svanisce in un soffio, dopo un minuto e mezzo o poco più.

Ma il brano centrale è Brown Shoes Don't Make It, la chiave di tutto sta in quei 7 minuti dove Zappa arriva allo spogliarello completo, lasciando fumare liberamente il proprio cervello, e nascono situazioni, avvenimenti, piccole grandi guerre nucleari, diciamo che il succo è così concentrato da svenire e si sarebbero potuti ottenere sette o otto brani almeno da quello che succede. Sete rumoristiche, pompose evoluzioni orchestrali, coriandoli di Bix Beiderbecke, fantasmi targati Billy Haley: tutto gira e si da la mano, in una serie di sketches che impediscono ogni parola e ogni pretesa, Frank Zappa è la Primula Rossa del pop attaccato al Sergeant Pepper's. Poi America Drinks & Goes Home sigla tutto come di dovere: rumori di ubriachi scatenati, risa, gracchiare di slot machines, mentre le Mothers danno l'addio con una marcetta di quarant'anni fa (e avanza la controfigura di Fred Astaire con cilindro e voglia di tiptap, Paul McCartney?).

Che grandissimo disco, insomma! E a chiudere il cerchio diremo dei testi, molli e infidi sino alla diavoleria: parole che come sempre sfiorano il confronto con la dura realtà (togliamoci dalla testa l'idea di un Frank Zappa appollaiato sui rami della revolution e cose simili) ma pure hanno vestiti luccicanti fatti di presa in giro e di esatte morsicate. Plastic People narra dell'alienazione consumistica, dell'insopportabile paralisi cerebrale che attanaglia tutta una certa fetta di Amerika: e lo stesso fa Brown Shoes Don't Make It, con lo scontro di normalità piccoloborghese e mente libera, e la anticipazione del grosso tema di Idiot Bastard Son (ma pure, buon Frank Zappa, perché non sei capace di mettere in pratica i tuoi strabilianti insulti?).

Concetti non terribili, ma pur sempre fastidiosi: e se vi aggiungiamo un uso malvagio di certe « cattive parole » (« Ha solo 13 anni ma mi piacerebbe farmela sul prato della Casa Bianca » dice a un certo punto il protagonista di Brown Shoes Don't Make It) comprendiamo il perché di tanti ostacoli frapposti al disco dai dirigenti della Verve-MGM, la casa discografica (La faccenda andò a finire così: le parole si capiscono poco per un mixaggio che volutamente rende confusa ogni cosa, e i testi non vennero allegati al disco, come già era accaduto in Freak Out! ma Come più non sarà in We're Only In It For Money. In compenso, Zappa otterrà d'inviare un libretto con le parole a tutti quelli che lo richiederanno ... ).

La formazione, infine, è quanto di più travolgente Zappa sia mai riuscito a mettere in piedi; Roy Estrada, Ray Collins, Don Preston, Jim Sherwood, Jimmy Carl Black, Bunk Gardner e Billy Mundi sono le Mothers per eccellenza, animali leggendari nella fauna pop (almeno fossero stati sempre così i compagni di viaggio di Frankenstein ...), gli stessi attorno a Zappa nelle serate incredibili, quelle della prima tournée Inglese, degli inizi al Whiskey a Go Go o al Garrick Theatre. E dunque pensiamo a quel tempo, all'« Hello » Porci di rito, ai tumulti in scena, alla provocazione – magia – gioco di prestigio, e facciamoci entrare nell'orecchio questa musica giusta che è la stessa di allora e poi ... salute, grande Frank Zappa!

Riccardo Bertoncelli